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di Cinzia Bollino Bossi


Raffaella Losapio espone il trittico Madonnine pop a Sassetti cultura, anno 2004

Raffaella Losapio espone il trittico Madonnine pop su plexiglass presso Sassetti cultura, Milano 2004

Dell’umano e dell’inumano di Cinzia Bollino Bossi

Milano, dicembre 2004 – Nell’epoca dell’invasione e della sollecitazione iconica, un’arte che propone con evidenza e insistenza figure appartenenti all’immaginario collettivo, merita particolare attenzione e discussione. Raffaella Losapio da anni lavora sulla figura dell’astronauta e, per riflesso, su quella dell’androide, sia attraverso la pittura digitale, sia attraverso l’utilizzo del video.

L’astronauta potrebbe assumere nella pittura contemporanea la medesima funzione assolta nella tradizione iconografica dagli esseri alati: tramite tra il reale e il divino, tra la terra e il cielo, creatura dalla doppia natura terrestre e aerea. L’astronauta è inoltre simbolo di un progresso tutto da fare, di un futuro che è davvero domani, non nelle prossime ore: dal primo volo dell’uomo sulla luna sono passati ormai anni, ma le ipotesi di viaggi astrali sono ancora chimere, fertilizzante onirico per cinema e letteratura fantascientifica.

Come un moderno Ulisse in cerca di nuovi approdi, il cosmonauta resta un eletto, capace di toccare le sponde di un altrove per i più irraggiungibile; forza il proprio corpo e sperimenta l’assenza di gravità, rendendosi estraneo alla meccanica dei movimenti e alla dicotomia, tutta terrena e prosaica, di leggerezza e pesantezza; sta chiuso entro bozzoli asettici, cullato dal liquido amniotico della tecnologia. Simboleggia la velocità che permette di valicare i confini, la scienza che sfida la conoscenza. Diventa pertanto metafora dell’apertura e dell’incontro con un possibile altro, necessariamente non umano, a esplicitare potenzialmente la parte della fabula che, nel racconto del viaggio oltre la terra, immagina le altre forme di vita, ne pensa i suoni e le forme.

Per questo l’astronauta è sempre solo. Il suo galleggiare nell’antro oscuro dell’universo o nell’algida culla della navicella spaziale lo priva di una componente emotiva e psichica affratellandolo agli androidi e ai manichini impersonali che ricorrono in altre opere di Raffaella Losapio.

L’immagine dell’uomo nello spazio è reiterata, insistita con l’ausilio del mezzo digitale, strumento filologicamente appropriato al soggetto, che consente variazioni cromatiche, effetti speciali, declinazioni pittoriche: ecco quindi le rifrazioni, i viraggi, l’assenza di un perimetro certo, come a dire l’impossibilità di mostrare chiaramente ciò che ancora non appartiene all’esperienza comune.

Si precisa in quest’ottica, allora, la poetica dell’artista, il suo nutrire speranze e fiducia nelle infinite potenzialità dell’uomo – qui rappresentate nel volo più titanico, come di un Icaro ambizioso e moderno – e, al contempo, il suo restare vigile nel monitorare e denunciare quella perdita di relazioni e di valori che minaccia, isterilendola, la vita d’oggi.

Del resto, all’interno di una dimensione narrativa sfociata nella sceneggiatura del video Beyond of limits, Losapio sembra ulteriormente ribadire il concetto: la protagonista, colta in un ambiente ora naturale ora artificiale, ma in ogni caso scandito dalla presenza di elementi verticali – fusti d’albero, colonne, a ribadire l’origine naturale delle forme astratte – incontra e conosce l’altro nel momento in cui indossa un casco. Così facendo cela in parte la propria identità (ovvero rinuncia a una parte di sé) e si approccia mediante altri sensi che non siano la vista. Il video è poi disseminato di altri segni, che nell’economia del racconto s’impongono con tutta la loro valenza simbolica: in particolare, la figura di Cristo del cenacolo vinciano e una monografia di Klee sono leggibili, oltre che come appelli a una non rinnegata fede nella tradizione artistica, come richiami alla dimensione di un aldilà che è lo spazio degli astronauti ma anche quello del trascendente.

Da qui arriviamo all’ultimo ciclo di Raffaella Losapio: la serie ispirata alla Madonnina del duomo milanese, su cui l’artista compie un’operazione di desacralizzazione e decontestualizzazione che ha precedenti illustri in Duchamp (L.H.O.O.Q) e in Warhol (le icone serigrafate di Marilyn, di Mao, di Elvis Presley…).

Molteplici le chiavi di lettura di una simile scelta poetica, che tecnicamente continua ad avvalersi delle potenzialità offerte dalla stampa digitale.

L’artista ce ne fornisce già nel titolo una prima: New Look, abiti nuovi per la Madonnina, svestita dell’oro e addobbata con colori sgargianti. Un po’ perché ormai l’oro non ha più niente di sacro ma è alternativa un po’ più lucente al denaro, anzi suo sinonimo e sua metonimia, un po’ perché così, svecchiata, rimodernata, la statua diventerebbe veramente simbolo di una città, sfrutterebbe il suo valore di logo, di marchio riconoscibile.

E anche se in Losapio non emergono di primo acchito riflessioni di natura religiosa, non essendo il suo né un atto blasfemo né un atto di fede, è però impossibile esimersi dal collocare un’opera del genere nell’attuale dibattito sulla laicità, portandoci a riflettere sul consumo di simboli religiosi e sulla loro riproducibilità, che li affranca da ogni dogma e da ogni pratica devozionale, asservendoli alle leggi del sistema delle immagini. L’icona modernizzata della madonnina può infatti essere collocata ovunque, in luoghi deputati alla fruizione artistica così come – è già successo – su mezzi di trasporto, treni, autobus e metropolitane. Accanto a tutti, atei e devoti, riconoscibile e al contempo inedita.

Quindi, se l’astronauta sale in cielo, la madonnina scende sulla terra. La riflessione è pertanto sull’umano e sull’inumano in quanto divino, etereo. E quella che è narrata è, tra le altre cose, una nuova versione della storia della conoscenza, con un uomo ancora assetato di sapere che esplora mondi e universi sconosciuti, e un divino che partecipa con curiosità alle faccende, soprattutto cromatiche e di look, di quaggiù. Il tutto espresso con una tecnica che allude alle nuove forme di generazione della vita e alla creazione di esseri mutanti, al confine tra il biologico e il robotico, in grado di varcare i limiti oggi imposti alla consapevolezza (o imposti dalla consapevolezza).

Come in ogni altra metafora della conoscenza, anche qui la luce è fondamentale: nel buio interplanetario o nella trasparenza diafana e sterilizzata della navicella spaziale, la luce investe i soggetti e li palesa. È una luce epifanica, rivelatrice, moderna tanto quanto quella che circonda la madonnina milanese e che, privata di ogni accento atmosferico, diventa puro colore.

È la luce a dare la misura del limite, e a suggerire di superarlo. Nel segno del dialogo, del progresso, del futuro.

Cinzia Bollino Bossi, dicembre 2004

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